Secondo le ultime ricerche la spesa digitale varia a seconda della categoria professionale di riferimento. Gli studi multidisciplinari investono di più.

Spesa-digitale

La trasformazione digitale è un percorso necessario, non solo per migliorare i processi aziendali ma anche per attrarre e trattenere i migliori talenti. Questa è una realtà scoperta da tutti i settori, anche dagli studi professionali che stanno aumentando la loro spesa digitale per portare innovazione nei loro servizi.

Secondo i risultati della ricerca dell’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale della School of Management del Politecnico di Milano, presentata durante il convegno Studi professionali, una nuova visione digitale per attrarre i giovani e far evolvere i clienti”, Nel 2022 avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro italiani hanno investito complessivamente 1,765 miliardi di euro in tecnologie digitali, una cifra in linea con il 2021(+0,4%). Ma, se nell’ultimo biennio la crisi energetica e quella delle supply chain, che ha colpito il mercato dei clienti, hanno avuto riverberi finanziari sull’ecosistema professionale, tanto da stabilizzarne gli investimenti, sono decisamente più rosee le previsioni per il 2023, in cui la spesa digitale dovrebbe segnare una crescita di circa il 7%, per arrivare a un valore stimato di poco meno di 1,9 miliardi di euro.

La spesa digitale dei professionisti cambia in base alla categoria

Nell’ambito della spesa digitale il mondo degli studi professionali si presenta molto variegato. Le organizzazioni multidisciplinari continuano a investire mediamente più delle altre categorie, 25.060 euro, mentre la spesa digitale media dei consulenti del lavoro è pari a 11.950 euro, quella dei commercialisti 11.390 euro e quella degli avvocati 8.890 euro. Il 41% degli studi multidisciplinari investe più di 10.000 euro, contro il 34% dei consulenti del lavoro, il 23% dei commercialisti e solo l’11% degli avvocati. Quasi 7 studi legali su dieci investono massimo 3mila euro all’anno in tecnologie. La categoria legale è anche quella maggiormente in sofferenza per redditività, con solamente il 57% degli studi in positivo nel biennio 2021-2022, contro una media di oltre il 70% per le altre discipline.

In questo contesto, gli studi professionali esprimono pessimismo per il futuro della professione: in quelli monodisciplinari gli ottimisti sono una minoranza (il 38% degli avvocati, il 41% dei commercialisti, il 45% dei consulenti del lavoro), in quelli multidisciplinari il 59%. E il principale pericolo per il futuro, secondo i professionisti è rappresentato dalle diverse piattaforme digitali, alcune delle quali ricorrono anche all’intelligenza artificiale, che potrebbero erogare servizi sostituendo le attività più standardizzate, evidenziato dal 40% degli avvocati, 37% di commercialisti e consulenti per il lavoro e 35% dei multidisciplinari.

Il secondo futuro pericolo per i professionisti è non riuscire ad assumere personale per supportare il percorso di crescita dello studio, il terzo non riuscire a realizzare il passaggio generazionale. Per tutti, infatti, emerge la difficoltà ad attrarre e trattenere i giovani, principalmente a causa della bassa retribuzione (in particolare per il 56% degli avvocati e il 41% di commercialisti e multidisciplinari), della difficoltà a vedere percorsi di carriera strutturati (43% avvocati e 42% multidisciplinari) e dello scarso bilanciamento tra lavoro e vita privata (54% commercialisti, 50% multidisciplinari e 38% avvocati e consulenti del lavoro).

Le tecnologie

Per quanto riguarda il patrimonio informatico, fatturazione elettronica e videochiamate sono utilizzate da oltre l’80% di tutti gli studi. Per il resto, la situazione cambia molto tra le tipologie di professionisti: sul podio VPN e piattaforme di eLearning, diffuse con percentuali che vanno dal 36% per gli avvocati a più del 60% per consulenti del lavoro e studi multidisciplinari. La spesa digitale dedicata all’aggiornamento tecnologico avviene a tassi ancora contenuti, segno di un rinnovamento lento sul fronte dei modelli organizzativi e di business. Le tecnologie di frontiera hanno ancora esigui tassi di diffusione, tanto da risultare espressione di poche realtà lungimiranti.

Tra gli avvocati, nessuna tecnologia è diffusa almeno nel 50% degli studi, nemmeno la conservazione digitale a norma (42%), i siti web (40%) le reti VPN (36%) o le piattaforme di eLearning (36%). Le tecnologie più evolute – CRM, business intelligence, intelligenza artificiale e blockchain – sono ai margini, diffuse tra il 3% e il 6% delle realtà.

Per i commercialisti, ad eccezione delle tecnologie citate in precedenza, tutte le altre sono adottate da meno del 50%: rete VPN (47%), piattaforme di eLearning (47%), sito web (33%), conservazione digitale a norma (33%).

I consulenti del lavoro hanno più tecnologie al di sopra del 50%, segno di un percorso digitale che si sta arricchendo: oltre alla procedura paghe (91%, riconducibile all’attività prevalente), sono molto presenti la procedura per la contrattualistica (70%), le piattaforme di eLearning (63%), la rete VPN (51%). Il sito web si ferma al 43%, mentre le tecnologie più evolute oscillano tra il 3% e l’8%.

Negli studi multidisciplinari, le tecnologie diffuse dal 50% in su comprendono la procedura paghe (65%), la rete VPN (61%), la piattaforma di eLearning (56%) e il sito web (54%). Le tecnologie più evolute, CRM, business intelligence, intelligenza artificiale e blockchain, oscillano tra il 3% e il 10%.

Nei grandi studi, invece, circa il 70% delle tecnologie mappate sono presenti in studio, segno di una maturità gestionale superiore non solo di maggiore capacità finanziaria.

Piccole e Medie Imprese

Secondo il report dedicato alla spesa digitale, sul fronte della domanda di servizi, il 27% delle PMI che hanno avviato progetti di digital transformation individua negli studi professionali giuridico-economici i principali collaboratori su questi temi. Il loro coinvolgimento riguarda, però, più la predisposizione della documentazione per accedere ai bandi o ad altre forme di finanziamento che non l’assistenza nella fase progettuale e di individuazione dei bisogni. È però anche vero che il 70% delle imprese non ha segnalato gli studi tra i principali collaboratori in termini di progetti di digital transformation: è evidente il rischio per i professionisti di avere una serie di concorrenti al di fuori della loro professione ma anche la carenza di competenze per poter contribuire a processi decisionali più ampi e impattanti sul core business aziendale.