L’Italia è spaccata in due: poche imprese sono digital disruptor. Ancora troppe invece resistono alla digital transformation

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Soltanto il 25% delle imprese presenti oggi sul mercato opererà ancora nel 2020. Si tratta certamente di una previsione molto nefasta che si spera non si verificherà, ma che non può non far sorgere a qualunque imprenditore una domanda: la mia azienda ci sarà ancora tra 3 anni? Un quesito questo che le organizzazioni devono seriamente porsi perché qualcosa sta realmente cambiando. Basta guardarsi in giro e osservare ad esempio le ripercussioni sulla nostra vita a seguito dell’avvento degli smartphone e quanto questo fenomeno stia conseguentemente influenzando il comportamento delle imprese che non possono far finta di niente, quasi come se il business fosse uguale a 5 anni fa. I campanelli d’allarme ci sono e il dubbio è lecito.

Tutto si sta infatti trasformando: dai modelli di business all’approccio al cliente, dal modo di lavorare dei dipendenti ai processi interni. Si afferma prepotentemente quindi il concetto di trasformazione digitale che, secondo Sergio Patano, Research & Consulting Manager di Idc, si caratterizza da 3 dimensioni: Dati, Digitalizzazione e Disruption. Sono proprio questi i fattori su cui oggi le aziende devono puntare se non vogliono soccombere a causa di chi, grazie al digitale, ha trovato il modo di essere più efficiente, ridurre il time to market e incrementare la customer satisfation. È questo il caso dei Disrupter per eccellenza, aziende come Uber, Alibaba e Airbnb che hanno basato il proprio successo sulla rivisitazione, in chiave digital, di business del tutto tradizionali: Uber non possiede neppure un veicolo di proprietà nonostante offra servizi di trasporto automobilistico, Airbnb non detiene un appartamento sebbene gestisca le prenotazioni in oltre 191 Paesi e Alibaba non possiede alcun magazzino dove stoccare la merce.

Le imprese tradizionali sono quindi chiamate alla rincorsa e alla riduzione del gap creatosi con i Disruptor. E per farlo le aziende devono innanzitutto creare ruoli dedicati alla trasformazione digitale, con figure che vadano necessariamente a modificare gli equilibri interni: le linee di business detengono ora il 47% dei budget dedicati all’innovazione rispetto al 41% dell’IT. Il 12% è destinato invece a progetti comuni, fatto positivo che garantisce un maggior dialogo tra due compartimenti solitamente stagni. È necessario inoltre lo sviluppo di una piattaforma digitale ibrida sulla quale fondare il business e che ha lo scopo, ancora una volta, di abbattere i silos aziendali, coniugando le piattaforme legacy (B2B e B2E) con la piattaforma digitale che si rivolge al cliente. “A tale scopo il cloud ibrido sembra la soluzione ottimale” sottolinea Patano. Ma questo non basta: è opportuno riuscire a creare un vero e proprio ecosistema che coinvolga clienti, dipendenti e partner in modo da avere maggiori sinergie nell’innovazione di prodotti e processi. Se ben coordinata, l’unione fa la forza! Ed è proprio l’innovazione costante un elemento fondamentale: se in Italia siamo ancora un po’ indietro, numerose aziende europee e americane stanno creando al loro interno degli Innovation Lab che si caratterizzano per avere l’agilità di vere e proprie startup.

Tutti questi fattori abilitanti hanno però un elemento comune, il dato, che rappresenta l’elemento centrale sul quale fondare il processo di digitalizzazione. Avendo le informazioni giuste è infatti possibile avviare strategie maggiormente efficaci che anticipano i trend di mercato e permettono di ottenere un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti. La sfida però non è affatto facile: secondo i dati IDC a fronte di un aumento della popolazione dell’1,5% entro il 2020 (7,8 miliardi), la quantità di dati crescerà invece in maniera esorbitante (+40%) fino ad un volume di 44 Zetabyte. E questi valori riguardano solamente i dati generati dalle persone: ad essi vanno aggiunti quelli provenienti dai 30 miliardi di dispositivi IoT che invaderanno il mondo nei prossimi 3 anni.
Oltre a dover immagazzinare una mole enorme di dati, compito delle imprese sarà pertanto quello di riuscire ad analizzarli, traendone valore. Ad oggi però solo il 22% dei dati è trattato e la percentuale salirà al 30% entro il 2020. Ciò è dovuto al fatto che oltre il 50% dei documenti è ancora in formato cartaceo e l’80% di essi riguarda dati non strutturati.

Ma a che punto siamo con la digital transformation?

Solo l’8% delle imprese è un digital distrupter e il 14% ha interiorizzato la trasformazione digitale. Il 64% si sta avviando invece verso il processo di digital transformation, mentre il restante 14% non prova neppure a innovare. Se si guarda invece all’Italia la percentuale di digital disruptor è molto simile a quella americana ma la nota dolente riguarda l’elevato numero di imprese avverse alla trasformazione digitale.

Queste realtà rischiano di subire il cosiddetto effetto Kodak – ha concluso Patano – La nota impresa americana aveva infatti realizzato la prima macchina digitale 3 anni prima rispetto ai competitor, ma il management aveva paura di non riuscire più a vendere i rullini e il progetto fu abbandonato. Nel gennaio 2015 Kodak ha chiuso il suo ultimo stabilimento”.