Le informazioni personali hanno un chiaro valore economico e sono l’oggetto dell’attività dei data broker

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Con un messaggio inviato a oltre 2 miliardi di utenti, WhatsApp ha comunicato l’aggiornamento dei propri termini e l’informativa sulla propria politica riguardo la privacy. L’avviso ha avuto un significativo e forse inaspettato impatto, tanto che si è avviato un esodo massivo verso altre applicazioni di messaggistica. In primis Signal e Telegram (quest’ultimo nel solo mese di gennaio ha avuto un incremento di 90 milioni di iscritti).

Tenuto conto del pericoloso trend, la scadenza è stata prontamente spostata dall’8 febbraio al 15 maggio 2021.

Per capire l’esigenza reale che si cela dietro questa iniziativa è bene precisare che nel febbraio del 2014 Facebook ha acquisito WhatsApp nell’intenzione di sfruttarne le enormi potenzialità e di far gravitare ogni utilizzatore nell’ambito delle proprie aziende.

Ognuno di noi si è interrogato almeno una volta sull’uso che viene fatto dei propri dati personali e sui soggetti che effettivamente ne hanno accesso. Un altro dubbio più che legittimo è se i nostri dati personali hanno un valore economico per il loro utilizzo da parte di terzi.

Considerando che nel 2017, negli Stati Uniti, i proventi pubblicitari sono stati pari a circa 83 miliardi di dollari per 287 milioni di utenti attivi, il “valore di mercato” annuale dell’utente medio per gli operatori commerciali è stato di 300 dollari.

In sostanza, tralasciando in questa sede la questione dei prezzi richiesti sul dark web per acquistare informazioni illecitamente raccolte mediante tecniche di raggiro, è pacifico sostenere che le informazioni personali hanno un chiaro valore economico tanto che diventano oggetto di specifica attività da parte di alcuni operatori specializzati: i data broker. Questi soggetti comprano le informazioni personali, oppure le raccolgono dai vari canali, li analizzano per rivenderli come una qualsiasi materia prima da riutilizzare.

I cittadini europei possono considerarsi protetti dal GDPR (General Data Protection Regulation) del 2018, ovvero il Regolamento Ue 2016/679 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento e alla libera circolazione dei dati personali.

Al di fuori del perimetro dell’Unione europea, il messaggio che WhatsApp ha inviato ai propri iscritti riguarda la condivisione dei dati al fine di una maggiore personalizzazione degli avvisi pubblicitari (proposti di volta in volta in maniera pressoché “sartoriale”).

Si può quindi sdoganare l’idea di una crescente e inesorabile “patrimonializzazione” dei dati.

In accordo con questa idea si segnala la recente sentenza n. 261 del 10 gennaio 2020 con la quale il Tar Lazio – Sede di Roma ha in parte confermato la sanzione irrogata dall’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato a Facebook per avere adottato una pratica commerciale ritenuta “ingannevole”.

Il giudice ha sostanzialmente smentito l’assunto promosso dal famoso social network secondo cui, per i dati personali, non sussisterebbe alcun corrispettivo patrimoniale e conseguentemente un interesse economico dei consumatori da tutelare.

E’ quindi indispensabile che gli operatori rispettino, nelle relative transazioni commerciali, quegli obblighi di chiarezza, completezza e non ingannevolezza delle informazioni previsti dalla legislazione a protezione del consumatore qualora quest’ultimo decida di utilizzare un qualsiasi servizio digitale.

A cura di Claudio Nassisi, Dottore Commercialista e Phd in economia e socio Aidr