
Un paradosso circonda il mondo dei beni culturali in Italia: nonostante la vastità e il prestigio del patrimonio presente nel nostro Paese che ha 59 siti iscritti nella Lista del patrimonio mondiale UNESCO, e 16 nell’elenco del Patrimonio Culturale Immateriale, un record mondiale, e numeri che pongono la filiera culturale tra i settori che producono maggiore ricchezza in Italia. si continua a guardare a questo ambito come a una spugna capace solo di assimilare risorse pubbliche senza concrete ricadute in termini di sviluppo territoriale. Non dimentichiamoci che secondo il Rapporto Io sono Cultura_2024, di 284mila imprese, 1,5 mln occupati complessivi, un valore aggiunto generato nel 2023 di 104,3 miliardi di euro, in aumento del 5,5% rispetto all’anno precedente e del 12,7% rispetto al 2019. In realtà, dopo anni in cui effettivamente la cultura rappresentava solo un bacino per assunzioni indiscriminate e generalmente non qualificate, oggi il contesto sta mutando. Abbiamo assistito negli ultimi dieci anni ad un recupero di marginalità grazie ad una vigorosa infusione di nuova managerialità e piani di change. Siti culturali e grandi poli museali nazionali hanno goduto dei frutti di una gestione più profittevole posta in essere da direttori che sempre più guardano al risultato economico, agevolati da programmi di recupero, ampliamento e valorizzazione degli spazi espositivi, dall’introduzione di sistemi digitalizzati mirati ad una fruizione estesa e diversificata dei beni culturali e sistemi di bigliettazione più rapidi e efficienti. La cultura si è aperta ad un pubblico sempre più vasto e disponibile a farsi emozionare dalla bellezza del nostro patrimonio culturale. I musei sono diventati contenitori “vivi”, luoghi di diffusione di espressioni artistiche multiformi; anche la percezione è progressivamente cambiata e non si guarda più alla cultura come ad un universo a cui è complesso accostarsi, di difficile interpretazione e riservato ad un pubblico di pochi eletti. Io opero da molti anni all’interno del contesto dei servizi culturali a Roma, una città che sta cercando di reinterpretare in chiave più moderna e “aperta” le modalità di fruizione del proprio immenso patrimonio artistico.
È fondamentale focalizzare la gestione dei beni culturali su pochi ma efficaci obiettivi strategici: efficientamento dei costi di gestione per liberare risorse da destinare agli investimenti, miglioramento dei servizi all’utenza, formazione e welfare. Se rimangono fondamentali i piani per l’ampliamento delle occasioni e delle modalità di accesso agli eventi e agli spazi culturali e il raggiungimento di livelli più elevati di qualità dei servizi dedicati ai visitatori, anche attraverso l’introduzione di sistemi di agevolazione alla fruizione delle sedi culturali, acquista sempre più peso, anche in modo inconsueto, la gestione delle risorse interne. Sto parlando dell’introduzione di nuovi standard e programmi di welfare interno a queste realtà, capaci di coinvolgere attivamente tutto il personale, fino a qualche tempo fa relegato a un ruolo di mero “custode” dell’incolumità dei beni culturali e che oggi si riappropriano di un ruolo funzionale alla valorizzazione del luogo dove operano e, indirettamente, anche della propria professionalità. Ogni azienda fonda un’ampia porzione del proprio successo sui livelli di benessere e soddisfazione che caratterizzano il clima interno. È importante, anche nel settore delle imprese culturali, attivare sistemi di ascolto del personale, raccogliere il loro pensiero e i loro suggerimenti, enfatizzare il loro ruolo e valorizzare il loro supporto. Ho sperimentato direttamente l’effetto “moltiplicatore” che una sapiente gestione delle risorse umane può generare rispetto ai numeri sull’affluenza di visitatori. Una adeguata accoglienza, un supporto al momento giusto, il giusto approccio verso il pubblico sono elementi che contribuiscono a fare la differenza.
A cura di Remo Tagliacozzo, amministratore unico Acquario Romano