Si tratta di un termine oggettivo dato dai vendor che decidono di interrompere il supporto ai kit legacy, ed è soggettivo quando i team IT devono affrontare la realtà e procedere alla loro dismissione.

di Cristian Meloni, Country Manager Italia, ‎Rubrik

Chiunque gestisca un’infrastruttura di dati deve affrontare la sua dismissione, prima o poi. I sistemi di backup, recovery e archiviazione, una volta agili ed efficienti, invecchieranno inevitabilmente. Non possono durare per sempre. È il ciclo di vita di ogni cosa.

End of life” è un termine oggettivo dato dai vendor che decidono di interrompere il supporto ai kit legacy, ed è soggettivo quando i team IT devono affrontare la realtà e procedere alla loro dismissione.

Con il ritmo dell’innovazione tecnologica e la migrazione verso nuovi modelli di cloud ibrido, sono sempre più numerosi i professionisti IT che non possono aspettare che qualcun altro “stacchi la spina”. In molti scelgono di porre fine in modo proattivo al ciclo di vita dei loro amati kit obsoleti, invece di attenderne la scadenza naturale.

L’infrastruttura di gestione dei dati che non può far fronte alle esigenze di elaborazione e scalabilità delle imprese digitali può causare gravi conseguenze. Infatti, indipendentemente dalla sua “età”, qualsiasi infrastruttura che non offra semplicità, velocità e scalabilità a costi contenuti potrebbe rappresentare una minaccia per fatturato, profittabilità e conformità.

Troppo spesso, i sistemi legacy non sono affidabili, sono difficili da gestire e inclini all’errore, ancora prima di pensare al rapporto tempo/attività svolte. Chi utilizza questi sistemi potrebbe affrontare molte difficoltà, durante gli audit, per dimostrare in modo trasparente quali siano i processi esatti di gestione dei dati e le loro prestazioni.

Una polizza assicurativa a vuoto

Il backup vecchio stile era come una polizza assicurativa contro i guasti, eccellente quando il rimborso avviene velocemente. La tecnologia legacy non solo è più lenta e inefficace rispetto alle tecnologie moderne (problema aggravato dalla crescente richiesta di dati), ma non fornisce alcun valore aggiuntivo. Le aziende stanno utilizzando i dati in modo sempre più innovativo, con approcci al cloud data management. Ricerca, protezione, analisi e monitoraggio sono lontani dal concetto di “conservare una copia per sicurezza”.

Un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che molti backup falliscono, in particolare quando si utilizzano tecnologie legacy non supportate, integrate in modo grossolano in un’architettura confusa. È un problema serio quando ci si aspetta il rimborso da parte dell’assicurazione e si scopre, in modo non solo letterale, di non aver pagato il premio correttamente.

Se questo sembra inverosimile, pensiamo all’impatto di un attacco ransomware che rende i dati inutilizzabili all’istante. Il desiderio è quello di ripristinarli immediatamente dall’ultimo backup, con la speranza che quest’ultimo sia abbastanza recente da non influire sulle operazioni aziendali. Sfortunatamente spesso non è così, con conseguenti perdite di business, di fiducia da parte dei clienti e di reputazione nel mercato.

Al contrario, il cloud data management non subisce le limitazioni legate alla complessità che affliggono gli approcci legacy e offre, se non l’immortalità, almeno una serie di superpoteri, ridefinendo la tipologia di aspettative delle aziende, ad esempio in ambito di governance dei dati, disaster recovery e capacità di ricerca istantanea.

Il tempo non aspetta nessuno. Ma quanto ne impiega il team IT per gestire integrazioni di dati complesse, attendere il completamento dei backup, ripristinare i sistemi o ricercare dati in un archivio specifico?

Se questa situazione risulta obsoleta, è forse giunta l’ora di porre la parola fine (sulla vostra infrastruttura).