Poche aziende avevano adottato lo smart working prima della pandemia. Ora, invece, quasi tutte vi stanno ricorrendo. A certificarlo sono i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, a fine aprile complessivamente risultavano 1.827.792 lavoratori attivi in modalità smart working; di questi, solo 221.175 lo erano prima dell’epidemia e delle norme varate dal Governo.
A testimoniare l’arretratezza del nostro paese sono anche i rilevamenti dall’Osservatorio sul Lavoro Agile del Politecnico di Milano, secondo cui se il 58% delle grandi aziende nel nostro paese hanno attivato qualche progetto o sperimentazione di smart working in modo stabile, questa percentuale scende drasticamente al 12% quando si parla di PMI, il vero tessuto economico del Paese. Secondo la ricerca dell’ateneo lombardo, prima della crisi sanitaria, addirittura il 38% di queste aziende si era dichiarato per nulla interessato a introdurre lo smart working.
Questa situazione è stigmatizzata anche dal dato continentale. Secondo l’analisi condotta dalla Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro dimostra che quasi il 12% dei lavoratori europei alle dipendenze di imprese o organizzazioni pubbliche pratica smart working, lavorando da casa saltuariamente (8,7%) o stabilmente (2,9%), grazie alle opportunità̀ messe a disposizione delle nuove tecnologie. In Italia la percentuale si ferma al 2% ed è la più bassa d’Europa, considerando che da noi potrebbero usare questa modalità oltre 8 milioni di lavoratori.
L’emergenza sanitaria ha però innescato un meccanismo virtuoso, costringendo giocoforza molte imprese a sperimentare il lavoro agile e quindi a toccarne con mano i potenziali benefici. Lo smart working (da non confondere con il telelavoro) consiste infatti in una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una formula che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività.
Questo perimetro di riferimento già evidenzia dunque i molti vantaggi dello smart working. Sempre l’Osservatorio del Politecnico di Milano indica che in media il 31% di chi lavora in questo modo è più contento rispetto alla modalità tradizionale e che la produttività può aumentare del 15%. Il lavoro agile si porta dietro anche un tangibile beneficio economico che può arrivare anche a 4000 euro all’anno a dipendente (risparmio su trasporti e spese accessorie). Inoltre c’è una importante ricaduta ambientale, legata per buona parte al pendolarismo: una giornata di smart working alla settimana per ogni lavoratore comporta un risparmio annuale individuale di 135 kg di Co2.
Quindi anche nella fase 2 e nella fase 3 che dovrebbe consentirci di tornare a una pseudo normalità pre-crisi, il lavoro agile dovrà diventare un pilastro stabile delle politiche sociali ed economiche dell’Italia a patto però che questa modalità venga svolta con cognizione di causa e in modo adeguato. E’ infatti necessario non solo ripensare i modelli di business, ma anche formare adeguatamente le figure coinvolte, a tutti i livelli. Alcuni aspetti infatti rischiano di essere trascurati, tra questi c’è quello della sicurezza informatica.
Il distributore fiorentino S-Mart – attivo da più di dieci anni nel mercato IT – stima che, perché i lavoratori possano svolgere le loro attività da remoto, ogni azienda debba investire una cifra media di 1000 euro circa per singolo dipendente, per dotarlo di un ‘kit base’ composto da un notebook, uno smartphone, una stampante e una connessione a internet, oltre a validi tool di messaggistica e videoconferenza per facilitare le comunicazioni e le riunioni a distanza.
Come detto, però, si tratta di strumenti che non vivono di vita propria ma devono necessariamente essere associati a soluzioni in grado di garantire un alto livello di protezione e tutela dei dati sensibili. Infatti, l’accesso da remoto amplia la superficie d’attacco di potenziali hacker che, approfittando di una rete più vulnerabile, possono compromettere e danneggiare talvolta irrimediabilmente il business aziendale. Nessuno è immune, tutti possono essere potenziali vittime. Il rischio di incidente informatico è costante e per questo motivo deve essere tenuto in considerazione nel lungo periodo, affrontando un investimento che secondo S-Mart corrisponde ad un range tra i 60 e 90 euro al mese per singola risorsa.
Questo si traduce in concreto nell’adozione di configurazioni software quali l’abbonamento ad un provider di posta professionale, la scelta di un servizio di assistenza efficace e tempestivo, oltre a sistemi di gestione da remoto degli access point e di condivisione della documentazione interna. Inoltre, nell’era del cloud, un’opzione efficace è sicuramente quella di scegliere sistemi di protezione e backup dei dati basati su questo standard.