Dopo cinque anni da Wannacry, uno dei maggiori attacchi informatici, è necessario ripensare alle strategie di sicurezza contro i RansomOps.

Wannacry

È stata forse la prima infezione globale da ransomware della storia. Cinque anni fa, a maggio del 2017, cominciava il viaggio tra i sistemi informatici di mezzo mondo di Wannacry, il malware che sfruttando una vulnerabilità di Windows è riuscito a criptare i file e chiedere un riscatto agli utenti di oltre 230 mila computer in 150 Paesi.

L’impatto sul mondo della cybersecurity è stato epocale. Innanzitutto, Wannacry è stato uno dei primi attacchi ransomware della storia recente a essere ampiamente pubblicizzato sulla stampa, tanto da mettere in allerta persino i non addetti ai lavori. Anche le persone che non ricoprivano un ruolo tecnico all’interno delle aziende hanno compreso quanto pericolosa e dannosa potesse diventare la minaccia ransomware.

In secondo luogo, gli strumenti utilizzati da Wannacry per violare i sistemi potevano essere ricondotti direttamente a toolkit sottratti agli Stati, dimostrando che il sofisticato spionaggio messo in atto dai cyber criminali stava diventando sempre più diffuso tra gli operatori di livello inferiore.

Wannacry ha rappresentato, quindi, una sorta di campanello d’allarme per i programmi di sicurezza, interessati fino a quel momento a mantenere lo status quo. Ha messo in evidenza la necessità di misure di sicurezza più proattive, dimostrando l’insufficienza dei semplici firewall per garantire la protezione dei sistemi.

Dal ransomware ai RansomOps

A cinque anni di distanza da Wannacry, le organizzazioni hanno maturato una nuova consapevolezza sulla sicurezza informatica. Nel frattempo, però, anche il ransomware si è evoluto e il livello di minaccia ha continuato a crescere. Più che di ransomware, oggi sarebbe meglio parlare di RansomOps. Le attuali minacce sono guidate principalmente da tattiche moderne e interattive messe in atto da operatori umani, che hanno preso il posto dell’approccio programmatico e semi-guidato di un payload wormable come era Wannacry. Si tratta di una distinzione importante perché influisce sul modo in cui le imprese devono difendersi.

Con le precedenti generazioni di ransomware, il tempo intercorso tra l’infezione e l’attività dannosa eseguita dal payload era breve e la via di attacco era abbastanza prevedibile; ciò significava che i controlli di sicurezza – spesso affidati a una funzionalità dell’endpoint – intervenivano direttamente nel luogo in cui si era verificato l’attacco oppure si scopriva abbastanza rapidamente che c’era un problema più esteso.

Le moderne bande di ransomware, invece, tendono ad annidarsi nei sistemi informatici per molto più tempo per estrarre più valore possibile, prima di manifestare la propria presenza criptando o distruggendo i dati. Non è raro che si attendano giorni o settimane prima di vedere i payload in azione, il che significa che, quando si rileva un problema, spesso è già molto tardi per intervenire.

Dalla prevenzione al rilevamento

Considerata l’attuale strategia dei ransomware, un moderno sistema di protezione deve concentrarsi sulla fase anteriore al momento in cui si manifesta la minaccia, dal rilevamento di segnali di comando e controllo all’identificazione di credenziali abusate o utilizzate in modo non corretto. È una corsa contro il tempo per trovare ed espellere il ransomware prima che esfiltri i dati e faccia a pezzi l’organizzazione.

I controlli preventivi sono fondamentali, ma da soli non sono più sufficienti. Oltre a tenere fuori gli autori delle minacce informatiche, è necessario oggi avere piena visibilità sui propri ambienti e integrare funzionalità avanzate di rilevamento e risposta per mitigare le minacce che stanno già aggirando i controlli esistenti.

Con la giusta configurazione, la tecnologia di Network Detection and Response può fornire una protezione efficace contro gli attacchi ransomware.

di Massimiliano Galvagna, Country Manager Italia di Vectra AI