Stefano Tana di Finanza.tech spiega come il settore fintech potrà esprimere appieno il suo potenziale, contribuendo a modernizzare l’intero sistema finanziario italiano

Fintech

Partendo dai dati di un recente studio pubblicato da EY e Fintech District e dall’ultimo report di ItaliaFintech, Stefano Tana, Presidente di Finanza.tech evidenzia come per superare il ritardo del settore fintech italiano rispetto agli altri contesti europei sia necessario cambiare strategia.

Non più acquisizioni di fintech da parte delle banche, che nel tempo ne hanno soffocato la capacità di innovazione, ma un modello di partnership industriale, fondato su obiettivi condivisi ma ruoli distinti.

Un modello, questo, che contribuirebbe a modernizzare l’intero ecosistema finanziario italiano.

Buona lettura!

Fintech italiano: per farlo crescere servono partnership, non acquisizioni

Nel confronto con i principali Paesi europei, l’Italia continua a scontare un evidente ritardo nello sviluppo del settore fintech. Gli investimenti restano modesti e frammentati, incapaci di sostenere la crescita di un ecosistema competitivo a livello internazionale. Secondo il recente studio “Founders vs Investors: two faces of Fintech funding”, pubblicato da EY e Fintech District, il nostro Paese conta circa 600 startup attive, ma rimane penalizzato da una limitata capacità di attrarre capitali, soprattutto nelle fasi iniziali. Se nel 2022 la raccolta complessiva raggiungeva il miliardo di euro, nel biennio successivo i numeri sono crollati: 174 milioni nel 2023 e 250 milioni nel 2024.

Anche l’ultimo report di ItaliaFintech, realizzato con il contributo scientifico dell’Osservatorio Fintech & Insurtech del Politecnico di Milano, conferma la debolezza strutturale del settore nel panorama europeo: l’Italia raccoglie solo il 6% degli investimenti complessivi e può contare su due unicorni, contro i 29 del Regno Unito e i 13 della Francia. È chiaro che, se si vuole rendere il fintech italiano un motore dell’innovazione del Paese, occorre cambiare strategia.

Il limite del modello “acquisitivo”

L’esperienza degli ultimi quindici anni mostra con chiarezza che le vere innovazioni nel sistema bancario non sono nate al suo interno. Le banche tradizionali hanno spesso tratto valore da soluzioni sviluppate da realtà fintech, senza però adottare un modello realmente collaborativo. In molti casi, si è scelto di acquisire startup promettenti, integrandole poi in strutture rigide e regolamentate, che ne hanno soffocato la capacità di innovazione.

Il risultato? Molte fintech sono state “fagocitate”, svuotate del loro potenziale e, di fatto, annullate. Un approccio che ha fallito il suo obiettivo strategico: trasformare l’innovazione in un asset strutturale per il sistema finanziario.

La natura stessa delle fintech rende questo modello inefficace. Si tratta di realtà fragili sul piano patrimoniale, ma vivaci sul fronte dell’innovazione tecnologica. Inserirle in ambienti regolamentati, dove le tempistiche e i margini di manovra sono limitati, significa snaturarle. Occorre invece costruire alleanze strategiche, che consentano loro di operare con autonomia, mantenendo la capacità di sperimentare, adattarsi e anticipare i cambiamenti.

Un modello basato sulla coabitazione, in tal senso, può generare valore per entrambi gli attori. Da un lato, le banche possono continuare a concentrarsi sul proprio core business, già sottoposto a crescenti pressioni regolamentari e competitive. Dall’altro, le fintech possono fornire soluzioni digitali in grado di migliorare efficienza, customer experience e capacità di adattamento ai cambiamenti di mercato.

Un approccio selettivo e orientato al merito

Affinché questo paradigma si realizzi, servono investimenti mirati, selettivi e accompagnati da una logica industriale. L’immissione indiscriminata di capitali non produce risultati duraturi, come dimostra l’esperienza di alcuni programmi pubblici che hanno distribuito fondi in modo poco strategico. È necessario distinguere le iniziative con reale potenziale, favorendo un ecosistema meritocratico.

In questa direzione si muove un’esperienza innovativa come Radical Partners, fondo privato guidato da Salvo Mizzi che si propone come partner qualificato nei processi di coinvestimento pubblico-privato, fungendo da filtro per l’impiego dei fondi pubblici. Grazie a una struttura snella e indipendente, agisce da “sentinella” sulla qualità dei progetti, contribuendo a una democratizzazione virtuosa del venture capital.

Un confronto internazionale necessario

Il confronto con altri Paesi europei – dove il numero di fintech è forse più contenuto ma le singole realtà hanno raggiunto dimensioni più solide – rivela ulteriori elementi di riflessione.

Nel nostro Paese, al contrario, la frammentazione è stata elevata: tante iniziative, spesso sottocapitalizzate e incapaci di reggere la pressione dell’evoluzione tecnologica. Il risultato è stato un ecosistema affollato ma poco performante, con molte realtà destinate a scomparire per mancanza di massa critica e continuità progettuale.

Tecnologia e finanza: due mestieri distinti, un obiettivo comune

L’errore più comune di questi anni è stato immaginare che le banche potessero governare direttamente la tecnologia. In realtà, innovazione e finanza sono mestieri profondamente diversi. La tecnologia evolve rapidamente, richiede investimenti continui, capacità di aggiornamento normativo e visione prospettica. Le banche, invece, sono chiamate a gestire modelli di business regolati e ad alta responsabilità sistemica.

In questo scenario, è fondamentale che il mondo finanziario riconosca il valore della tecnologia come leva strategica, ma lasci alle fintech la libertà di svilupparla. Il rapporto ideale è quello di una partnership industriale, fondata su obiettivi condivisi ma ruoli distinti.

Verso un nuovo modello economico

L’Italia ha oggi l’opportunità – e la necessità – di imparare dalla fase precedente. Ciò che conta, ora, è costruire un modello economico capace di sostenere e valorizzare le innovazioni che emergono. Gli investimenti devono essere strategici, strutturati e orientati alla creazione di valore nel lungo termine. Serve una visione industriale, non tattica. Una logica di ecosistema, non di estrazione. In questo modo, il settore fintech potrà esprimere appieno il suo potenziale, contribuendo a modernizzare l’intero sistema finanziario italiano.

di Stefano Tana, Presidente di Finanza.tech