84% dei prodotti GDO ha etichetta green, ma aumenta anche greenwashing (+26%). In crescita pure greenbickering, e la disputa tra competitor su irregolarità tra etichette concorrenti

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Il mercato della sostenibilità all’insegna dell’etichetta green è in piena fioritura. E se da un lato qualcosa si sta muovendo con la nuova direttiva del Parlamento europeo che mira a fare scelte di acquisto più consapevoli grazie a etichettature più chiare e affidabili, dall’altro i tribunali cominciano a prendere più confidenza con tutta una serie di azioni con le quali un’azienda può agire contro un competitor per concorrenza sleale.

L’etichetta green al top

Da un lato dunque crescono i prodotti che riportano in etichetta “claim” che comunicano la loro sostenibilità: sono ben l’83,8% di quelli presenti negli scaffali della GDO, che si tratti di riciclabilità del packaing, formulazione sostenibile degli ingredienti o biodegradabilità. Questi dati rilevati dall’Osservatorio Immagino di Gs1 Italy1, manifestano un’attenzione sempre maggiore da parte delle aziende alle tematiche green come elemento fondamentale delle strategie commerciali e di marketing.

Dati che trovano riscontro anche nel report “The Visionary CEO’s Guide to Sustainability 2024” di Bain & Company condotto su circa 19.000 consumatori a livello globale, tra cui gli italiani, dove emerge come la sostenibilità sia uno dei tre criteri principali che influenzano le decisioni d’acquisto, e che portano il 36% degli acquirenti a cambiare fornitore se quest’ultimo non riesce a soddisfare le aspettative in materia di sostenibilità.

Il green di facciata

D’altra parte però, secondo l’Osservatorio Deloitte, il 59% degli acquirenti interromperebbe o limiterebbe gli acquisti dei brand che utilizzano una comunicazione ambientale “di facciata”, ovvero il cosiddetto greenwashing. Il fenomeno è infatti in crescita in tutti i settori del +26% (dati 2023 EBA) facendo apparire un prodotto o un brand più “verde” di quanto sia in realtà. Il 60% delle imprese cade almeno una volta in comunicazioni a impronta green non valide o ingannevoli.

Ma non solo, infatti un’indagine condotta dalla Commissione europea sotto il coordinamento della Ipcen (Consumer Protection and Enforcement Network) ha evidenziato come nel 42% dei casi le autorità abbiano ritenuto ingannevoli e non veritiere le comunicazioni green, e quindi abbiano accertato il compimento di pratiche commerciali sleali. In particolare in oltre il 50% dei casi, le aziende non hanno dato ai consumatori informazioni sufficienti per valutare quanto comunicato in materia di ecosostenibilità; nel 37% dei casi il claim conteneva formulazioni generiche, come ‘rispettoso dell’ambiente’, o ‘eco’ e nel 59% dei casi non venivano esplicitati elementi a supporto di quanto dichiarato.

Casistiche che secondo gli esperti legali in sostenibilità potranno portare a un aumento di azioni legali tra aziende concorrenti e a una crescita del cosiddetto Greenbickering, le dispute tra aziende competitor sulle irregolarità delle informazioni presenti su packaging ed etichette.

“A livello legislativo – spiega Rita Santaniello avvocato dello studio legale multinazionale Rödl & Partnerse da un lato qualcosa si sta muovendo con la direttiva che ha ottenuto il via libera definitivo del Parlamento europeo e che mira a proteggere i consumatori da pratiche di comunicazione ingannevoli e a supportare scelte di acquisto più consapevoli grazie a etichettature più chiare e affidabili, dall’altro i tribunali dovranno prendere sempre più confidenza con tutta una serie di azioni (o cause) con le quali un’azienda può agire contro un competitor per concorrenza sleale laddove ritenga utilizzi impropriamente la leva della sostenibilità aziendale per migliorare il suo percepito verso il mercato e i consumatori per vendere di più, come per esempio utilizzando marchi, slogan o diciture green non comprovate sottraendo mercato agli altri o per ‘inverdire’ la propria immagine, ottenendo così ingiustamente un vantaggio competitivo”.