Una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’UE potrebbe avere un effetto dirompente come la nota sentenza Schrems che, nel luglio 2020, ha reso illegittimi i trasferimenti di dati personali tra Unione Europea e Stati Uniti. In breve, con la sentenza Schrems la Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) ha invalidato il “Privacy Shield” che permetteva il flusso di dati UE-USA senza restrizioni, in quanto i dati personali trasferiti e conservati negli Stati Uniti non godevano di un livello adeguato di protezione, come invece previsto dal GDPR. Come avvenuto in quel caso, anche oggi il “nemico” citato nella sentenza più recente è Facebook, ma ad essere onesti dovremmo dire che il vero nemico è un intero sistema, quello della profilazione e della pubblicità personalizzata sui social network, che continua ad essere la prima fonte di sostentamento delle big tech.
Di che nuovo consenso stiamo parlando
Un sistema che ora è colpito nelle sue fondamenta, perché la Corte di Giustizia con una semplice parola ha dato una propria interpretazione che lascia adito a pochi dubbi, ma che rischia di mettere in ginocchio l’enorme business che ruota attorno all’advertising sui social. Quella parola è: consenso. Sì, la Corte è tranciante su questo punto: per utilizzare quel tipo di trattamento di dati, così invasivo, che sta alla base dell’ecosistema di pubblicità e che frutta più del 90% del profitto delle big tech è necessario ottenere il consenso degli utenti interessati. Un consenso specifico, separato da qualsiasi altro consenso o accettazione dei termini e condizioni della piattaforma. Un consenso che, quindi, rispetti gli alti standard della normativa privacy europea. E non è un dettaglio, perché quel consenso, in quanto libero e specifico, dovrà essere facoltativo. L’utente potrà decidere di non rilasciarlo oppure di revocarlo in un secondo momento, così di fatto spuntando le armi di Facebook che non sarà in grado di profilarci come desidera. La Corte, infatti, ha sottolineato che un tale trattamento non potrà essere “legato” ai termini e condizioni della piattaforma, come se fosse incluso nella loro accettazione in fase di registrazione.
La profilazione è la base della pubblicità mirata
Facciamo però un passo indietro e cerchiamo di capire di quale trattamento stiamo parlando. Lo spiega bene la Corte all’inizio del suo provvedimento: Meta Platforms Ireland non si limita a raccogliere dati riguardanti le attività degli utenti all’interno di Facebook. Questi dati vengono infatti uniti ai cosiddetti “dati off Facebook”, derivanti dalla nostra consultazione di pagine Internet e di terzi, oltre che dall’utilizzo di altri servizi online appartenenti al gruppo Meta, fra i quali Instagram e WhatsApp. Questo consente a Meta di creare un profilo davvero efficace e rappresentativo delle nostre preferenze e interessi, perché frutto di un patrimonio informativo enorme. Quel profilo, poi, serve ad alimentare il business dell’advertising, perché le aziende iscritte su Facebook sanno a loro volta di potersi appoggiare a Meta per targetizzare nel modo corretto i propri annunci; sanno, quindi, che grazie alla profilazione di Meta, le loro campagne pubblicitarie andranno a segno, perché saranno effettivamente proposti ai clienti target che hanno individuato.
Ma questa catena di processi che parte dalla profilazione degli utenti per arrivare agli annunci personalizzati di aziende paganti potrebbe spezzarsi. Gli utenti, infatti, seguendo le parole della Corte dovranno essere messi nella condizione di scegliere se rilasciare o meno il consenso per essere profilati (anche al di fuori di Facebook) ed è quindi presumibile che alcuni (o molti?) di essi lo negheranno oppure in futuro faranno marcia indietro revocandolo. Un danno incalcolabile per Meta come per tutti i social network e le piattaforme che fanno leva su questo business, perché probabilmente i loro tool di targetizzazione non si riveleranno più così efficaci e qualche azienda deciderà di investire altrove.
Il “capitalismo della sorveglianza” è a rischio?
Chi dice che ormai è troppo tardi perché abbiamo ceduto tutti i nostri dati alle big tech non conosce i meccanismi che si celano dietro a quello che Soshana Zuboff ha definito come capitalismo di sorveglianza. La nostra identità cambia, i nostri interessi e preferenze mutano nel tempo, e quindi anche il nostro profilo di Meta deve essere aggiornato, altrimenti in futuro riceveremo annunci poco “in target”. Quindi il nostro consenso fa e farà tutta la differenza del mondo per queste piattaforme. La domanda ora è: Meta e gli altri social network si adegueranno a questa interpretazione della Corte di Giustizia? D’altronde le parole dei giudici comunitari sulla necessità del consenso per legittimare il business della pubblicità hanno un peso e faranno certamente giurisprudenza, oltre ad evidenziare ancora di più il grande divario esistente tra USA e Unione Europea in tema di protezione dei dati. Di questa questione e di molto altro si parlerà in occasione della Privacy Week, la rassegna che investiga il nostro rapporto con il digitale e le potenziali soluzioni per proteggere la privacy dei cittadini. Quest’anno (25-29 settembre) si parlerà proprio della spesso sottovalutata condizione di essere sempre più “esposti” online. Una condizione che – e ce lo indica anche la Corte di Giustizia dell’UE – per il nostro stesso bene non dovremmo più ignorare.
Andrea Baldrati, Co-founder di Privacy Network