Cresce in Italia il digital mismatch e le aziende sono costrette a cercare professionisti stranieri. La digitalizzazione deve partire dalla scuola.

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In Italia c’è un divario tra le competenze possedute dai lavoratori e quelle richieste nel mondo del lavoro. In questo caso competenze che riguardano la digitalizzazione e l’ambito STEM (Science, Technology, Engineering & Math). È il digital mismatch. Fenomeno in crescita esponenziale nel nostro paese, dove secondo lo European Centre for the Development of Vocational training (Cedefop) dell’Unione Europea a fine 2020 i posti di lavoro vacanti in ambito ICT hanno toccato quota 135.000 (750.000 in tutta Europa) e la causa principale di questa cifra è proprio il gap tra domanda di professionisti con competenze adeguate e offerta che, purtroppo, non soddisfa le richieste.

Ma dove ha origine questo scollamento nella digitalizzazione? La scuola sembrerebbe essere uno dei principali responsabili secondo Oliver James, recruiting firm di nuova generazione che ha sviluppato un approccio alla ricerca del personale che mette al centro persone e dati.

Secondo un recente osservatorio, svolto su oltre 3000 studenti delle scuole superiori (istituti professionali, tecnici e licei), il percorso di digitalizzazione formativo proposto dalle scuole soddisfa pienamente solo il 7% degli studenti. Insoddisfazione che spinge il 52% di loro a formarsi in ambito tecnologico e digitale al di fuori del percorso di studi. Un “fuori” che si traduce per il 59% di loro nel seguire corsi e tutorial su YouTube. E all’Università le cose non vanno di certo meglio. Solo l’1% dei laureati italiani ha un titolo in ambito Ict (peggior posizione nell’Unione Europea) e gli specialisti in Ict sono solo il 3,6% dell’occupazione totale a confronto della media UE che si attesta al 4,2% (dati Eurostat).

Quelli relativi alla digitalizzazione in Italia, sono dati allarmanti che devono far riflettere seriamente sul futuro del nostro sistema scolastico”, commenta Pietro Novelli, Country Manager Italia di Oliver James. “Ancor più se si guardano i dati emersi da una ricerca condotta dal World Economic Forum secondo cui il 65% dei bambini che oggi si trovano sui banchi di scuola al termine degli studi svolgerà un lavoro che oggi non esiste ancora. Tra due anni, infatti, il 25% delle posizioni lavorative aperte riguarderà proprio nuove professioni, tutte ascrivibili al mondo digitale, sia che si tratti di esperti di intelligenza artificiale, analisti di big data, e esperti di cyber security, solo per fare alcune dei lavori più comuni che si svilupperanno”.

La situazione della digitalizzazione per l’Italia non è di certo rosea e a rincarare la dose ci pensa l’indice DESI (Digital Economy and Society Index) sviluppato dall’Unione Europea per monitorare le prestazioni digitali complessive dell’Europa e tenere traccia dei progressi dei paesi dell’UE per quanto riguarda la loro competitività digitale. Nell’indice riguardante il capitale umano sui due indicatori “competenze degli utenti di Internet” e “competenze avanzate e sviluppo”, l’Italia si posiziona agli ultimi posti preceduta dalla Grecia e seguita solo da Romania e Bulgaria.

Guardando questi report e analisi non mi sorprende che ci siano così tanti posti vacanti nelle professioni digitali e tecnologiche, con una vera e propria guerra per attrarre i pochi talenti disponibili, il che crea un’inflazione dei livelli retributivi e rende pressoché impossibile qualsiasi strategia di retention”, sottolinea Pietro Novelli. “Nel breve periodo, dal mio punto di vista, tre sono le soluzioni possibili: da una parte devono essere le aziende a investire nella digitalizzazione e nella formazione dei propri dipendenti per restare competitive nel mercato, non solo formando i professionisti più giovani, ma anche attraverso processi di reskilling. In maniera crescente si sta creando un mercato di formazione privato, e spesso totalmente digitale, dove singoli professionisti si autofinanziano il percorso di formazione professionalizzante su ambiti digitali e tecnologici. Infine, è la scuola che deve avvicinarsi al mondo delle aziende, migliorando i percorsi di orientamento ma anche “ascoltando” le aziende per individuare le esigenze del mercato del lavoro. La digitalizzazione è fondamentale anche nei settori più classici, per cui può rappresentare un volano di innovazione – basti pensare all’agricoltura, agli ambiti amministrativi, al mondo della sanità e quello della giurisprudenza. All’Italia serve un deciso cambio di marcia quanto prima, in caso contrario le aziende si orienteranno verso professionisti stranieri più qualificati o addirittura saranno costrette a delocalizzare all’estero in quei Paesi virtuosi e molto più preparati da un punto di vista delle competenze STEM”.