Nella Silicon Valley nasce la figura del Chief Philosophy Officer. 5 cose che un Antropologo può insegnare a un Marketing Manager

Antropologia e marketing

Se antropologia e marketing vi sembrano una strana coppia, i grandi colossi della Silicon Valley sono pronti a smentirvi. Nella patria dell’hi-tech, infatti, si sta diffondendo il ruolo del CPhO, ossia il Chief Philosophy Officer, una figura che in aziende come Google mette in forse la necessità dell’onnipresente problem solving e sposta le domande da “come posso fare a ottenere maggiore successo?” a “perché devo raggiungere il successo?”.

È importante massimizzare le vendite: è l’obiettivo di ogni azienda. Ma invece di chiedersi solamente come farlo, non sarebbe meglio interrogarsi su come le forze – per la maggior parte culturali – che stanno alla base delle scelte di consumo orientino il consumatore?

Numeri e modelli matematici che oggi sembrano poter interpretare univocamente i desideri dei consumatori sono fondamentali e utilissimi, ma sono solo una parziale rappresentazione del mondo e non l’unica verità possibile: quando l’individuo entra nell’equazione, le cose smettono di essere così lineari e quantificabili. Proprio in questo contesto scienze umane e discipline accademiche, come l’antropologia e la semiotica, si mostrano invece in tutta la loro efficacia di strumenti utili ad analizzare gli esseri umani nella loro declinazione di acquirenti.

L’antropologia, per esempio, viene in aiuto al marketer quando parliamo di desideri, delle aspettative dei consumatori, dei valori culturali che riguardano famiglia, successo lavorativo, risorse, sostenibilità ambientale. Qui, in questi territori poco praticati del “continente uomo”, i big data devono cedere il passo alla “cassetta degli attrezzi” dell’antropologo; perché è proprio la “scienza della cultura” che può fare la differenza nel comprendere come, e in che modo, i brand vengano percepiti e cosa rappresentino nella nostra società, con l’obiettivo di pianificare strategie di mercato efficaci.

XChannel, la prima società in Italia per le soluzioni di marketing e comunicazione crosscanale, che si serve proprio dell’antropologia per integrare il suo approccio quanti-qualitativo, ha stilato, riprendendo alcune riflessione del manager e giornalista Mitchell Osak, una lista delle 5 cose che un Marketing Manager può imparare da un Antropologo.

  1. Persone vs business

    L’antropologia sposta il focus sull’esperienza diretta che un consumatore fa di un prodotto o di un servizio, si interroga sul perché lo abbandona o viceversa. Quindi la domanda che pone e si pone è “in che modo i nostri clienti utilizzano il nostro servizio, e perché lo abbandonano?”. Ragionare solamente in termini di business focalizzerebbe l’interrogativo sul come ridurre il tasso di abbandono e non sul perché gli utenti decidono di lasciare o cambiare marchio o gestore.

  2. Saper fare le scelte giuste

    Scegliere la metodologia di raccolta dati e i processi di analisi più adeguati alla ricerca che stiamo svolgendo è il primo step fondamentale. I dati grezzi, di prima mano (fotografie, diari, video, note di campo), vengono raccolti e analizzati attraverso un rigoroso e complesso processo di decodifica che richiede al ricercatore strumenti di valutazione e di elaborazione molto accurati.

  3. Il dono della sintesi

    Per riuscire a sintetizzare i modelli di comportamento dei consumatori, l’antropologo analizza i dati raccolti, li riconduce al modo di agire dei fruitori (attraverso i loro sentimenti, i loro desideri, i loro obiettivi) e infine utilizza strumenti specifici per leggere e spiegare cosa guida le loro scelte e le loro azioni.

  4. Osservare, osservare e ancora osservare

    Innanzitutto un antropologo deve chiedersi: “cosa devo osservare? E da che prospettiva farlo?”. Lo “sguardo antropologico” ovvero il “punto di osservazione privilegiato” di un antropologo è “situato” in uno spazio e in un tempo “interni” alla società; e questo significa essere “sul campo” (online oppure offline), calarsi in mezzo ad altri esseri umani (o nelle loro conversazioni digitali) e, senza partire da ipotesi preconcette, osservare, capire, dialogare, interpretarne e comprenderne il comportamento, il linguaggio, le abitudini, i valori, le credenze, i desideri, i modelli di riferimento.

  5. Quantità vs qualità

    Un antropologo sa bene che fotografare la realtà è molto diverso dal comprenderla. I metodi standard di indagine qualitativa usati nel mondo del marketing (focus group, sondaggi, interviste one-to-one) sono in grado di restituire alle aziende il quadro di “cosa sta avvenendo”, ma non sono in grado di spiegarne il perché. L’antropologo invece applica un duplice approccio che si basa da un lato su un sapere olistico in grado di riprodurre un ritratto del consumatore nella sua complessità – incluse le motivazioni inconsce e irrazionali che muovono le sue scelte – e dall’altro sul rigore scientifico che riesce a individuare e decostruire i principali luoghi comuni, i condizionamenti, e le “convinzioni erronee” indotte dal brand.

L’antropologia, con il bagaglio di strumenti interpretativi che la contraddistinguono, si rivela quindi indispensabile per comprendere le cause profonde che orientano le scelte dei consumatori ed esplorare il pensiero che guida le loro azioni, così come i condizionamenti inconsci che ne sono alla base. Per questo è necessario applicare un approccio crosscanale al marketing, come quello proposto da XChannel, che combina big data e scienze umane per generare un impatto diretto e positivo sulle vendite delle aziende.