Ricerca Tack TMI Italy (Gi Group Holding): più di 1 lavoratore su 4 dichiara di aver subìto discriminazioni, ma solo il 37% delle aziende fornisce strumenti per gestire la diversità

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Se chiedessimo all’italiano medio: Quale persona è top manager? L’uomo di mezza età caucasico. Chi lavora in magazzino? Il ragazzo giovane caucasico o anche straniero. Chi si occupa della segreteria? La donna giovane. E di amministrazione? La signora più senior. Sono alcune delle risposte comuni e dei risultati più frequenti ai test proiettivi, in cui è stato chiesto agli intervistati di associare immagini di persone con caratteristiche differenti ad alcuni ruoli. E qui cominciano le discriminazioni.

 

I bias persistono e le discriminazioni sul lavoro

I test, che hanno confermato la presenza – e persistenza – di stereotipi legati alla diversità (di età, genere, etnia) sul lavoro, sono stati condotti nell’ambito della ricerca “Oltre le diversità: percezioni, esperienze e bisogni” promossa da Tack TMI Italybranch italiana della società di Gi Group Holding specializzata in Training & Development – su un campione di 1.500 lavoratori occupati in Italia,  con l’obiettivo di contribuire a un cambiamento reale e sostenibile nel modo in cui le imprese affrontano il tema dell’inclusione.

Dunque, i bias persistono e di conseguenza anche le discriminazioni sul lavoro, ma le azioni concrete per contrastarle, come politiche e formazione sulla diversità, non sono ancora sufficienti o devono essere messe in campo.

Dalla survey emerge infatti che 9 lavoratori italiani su 10 segnalano la presenza, in ambito professionale, di episodi di discriminazione – su base etnica, di genere, orientamento sessuale, disabilità, età, aspetto fisico e altre caratteristiche personali, come il credo religioso -, mentre il 28% dichiara di averli vissuti in prima persona.

Tuttavia, si evidenzia anche una forte percezione di mancanza di azioni concrete da parte delle aziende e scollamento tra le dichiarazioni d’intento e la realtà.

Il 64% degli intervistati della ricerca si riconosce, infatti, nell’affermazione “tante aziende parlano di programmi di diversità e inclusione, ma non fanno niente per i lavoratori come me” e solo il 37% sostiene che, nella propria azienda, vi siano strumenti per gestire le tensioni legate alle diversità. 

 

Soddisfazione e insoddisfazione sul posto di lavoro

Questo a fronte di una realtà in cui la soddisfazione sul posto di lavoro non dipende più soltanto da fattori quali la retribuzione, il Work-Life balance e la possibilità di sviluppo della propria carriera, ma anche dal sentirsi riconosciuti, accolti, rispettati nella propria unicità e da un allineamento rispetto ai valori aziendali (fondamentale per il 93% del campione).

“Quando i lavoratori considerano valori fondamentali l’integrità, la trasparenza, la collaborazione e il lavoro di squadra, inclusione ed equità non possono più essere viste come un extra, ma diventano una vera e propria necessità. Le aziende devono impegnarsi seriamente su questi temi, sia a livello culturale che gestionale – spiega Irene Vecchione, Amministratore delegato di Tack TMI Italy (Gi Group Holding)Purtroppo, le discriminazioni esistono ancora, sia in modo evidente che più nascosto. Fattori come l’aspetto fisico, la somiglianza con chi ci è familiare o la vicinanza culturale influenzano ancora i rapporti sul lavoro. Questo succede anche per via dell’“effetto alone”, un meccanismo mentale che ci porta a giudicare una persona in modo positivo o negativo su tutto, partendo da un solo tratto (come l’aspetto o il modo di parlare). Per cambiare davvero le cose, è importante lavorare su questi automatismi e capire dove le politiche di Diversità, Equità e Inclusione possono essere migliorate. Serve formazione e coinvolgimento a tutti i livelli dell’azienda, per costruire una cultura più giusta, motivante e capace di attrarre e trattenere i talenti 

Non solo etnia, orientamento sessuale e disabilità; anche genere, età e aspetto fisico tra le cause principali della discriminazione

In base allo studio, l’etnia emerge come il fattore principale di pregiudizi (62%), seguita da orientamento sessuale (49%) e disabilità (48%). In particolare, la maggior parte del campione intervistato (57%) concorda che una persona disabile sia svantaggiata in azienda.

3 lavoratori nati fuori dall’Italia su 4 hanno subìto discriminazioni. Sul tema dell’etnia emergono inoltre differenze a seconda dei territori e dei settori: ad esempio nel Nord Est e nel manifatturiero emergono con più forza gli stereotipi nei confronti dei lavoratori stranieri, visti come meno collaborativi o rispettosi delle regole aziendali.

Quando, infine, si chiede a chi ha subìto un episodio di discriminazione sulla propria pelle quali siano state le cause scatenanti, la fotografia è in parte differente.

La maggior parte dei casi sono, infatti, riconducibili al genere (14%), all’età (14%) e all’aspetto fisico (10%) e riportati soprattutto dalle donne e dagli under 35.

 

L’importanza della formazione per un ambiente inclusivo

Se solo il 30% delle aziende con meno di 50 dipendenti mette a disposizione strumenti per gestire le eventuali difficoltà legate alle diversità – mentre la percentuale cresce al 41% tra le imprese di medie dimensioni (50-500 dipendenti) e raggiunge il 47% nelle grandi -, vi è però fiducia nella capacità generale delle organizzazioni di gestire potenziali conflitti.

 

Il 29% degli intervistati individua nelle dinamiche generazionali la principale criticità da affrontare, subito dopo la diversità di genere.

 

In questo contesto la formazione è certamente uno spazio da presidiare, considerando che solo il 21% delle persone ha dichiarato di avere preso parte ad iniziative di sensibilizzazione; l’empatia –  ossia la capacità di “mettersi nei panni” degli altri, connettersi e comprenderli in modo profondo, anche senza aver necessariamente condiviso le stesse esperienze – è l’ambito su cui le persone ritengono utile ricevere maggior formazione, insieme alla capacità di riconoscere e gestire pregiudizi e stereotipi.

“C’è un legame forte tra quello che i lavoratori chiedono e le loro esperienze personali: spesso le richieste di attenzione o cambiamento nascono perché le persone sentono più fortemente le discriminazioni che toccano la loro identità o la loro storia personale – conclude Vecchione. – Ma non basta solo sensibilizzare: bisogna cambiare davvero la cultura delle organizzazioni, per creare ambienti di lavoro più giusti, dove le persone stiano meglio e siano più coinvolte. La sfida è chiara: la diversità deve diventare una realtà concreta nei luoghi di lavoro, riconoscendone il valore umano e il potenziale di crescita e innovazione.”