Lo smart capital è una forma di investimento che non si limita a sostenere un progetto, ma partecipa in modo attivo alla sua costruzione

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In Italia sta sempre più diventando significativo il ruolo dello smart capital. Ma per capire esattamente di cosa si tratta dobbiamo fare quale passo indietro. Negli ultimi anni il nostro Paese ha visto nascere migliaia di nuove iniziative imprenditoriali legate all’innovazione, ma la loro crescita continua a scontrarsi con un limite ricorrente: la difficoltà di reperire capitali e competenze nelle primissime fasi. Lo conferma anche lo studio di EIS – European Innovation Scoreboard, il principale indicatore europeo sullo stato dell’innovazione nei Paesi membri, che colloca l’Italia nel gruppo degli Innovation Moderates. Una posizione che riflette un ecosistema dinamico, ma non ancora sostenuto da un livello di investimenti, capacità di trasferimento tecnologico e presenza di capitale privato in linea con le economie più mature del Continente.

Una fotografia simile emerge dalle analisi del European Tech Scaleup Report di Dealroom, che colloca l’Italia tra i mercati più attivi per numero di nuove iniziative innovative, ma molto più indietro quando si osserva la quantità di capitale early-stage effettivamente raccolto. È un divario che indica non tanto un problema di vitalità imprenditoriale, quanto di abilitazione: le idee e i team ci sono, ma mancano investitori informali in grado di sostenere la crescita nei passaggi più delicati.

Questa fragilità non riguarda solo il capitale disponibile, ma un ritardo culturale più ampio. Anche il Rapporto Draghi, dedicato alla competitività del sistema produttivo europeo,  richiama l’attenzione sul fatto che l’Italia soffre una cronica sotto-dotazione di capitali privati nelle fasi iniziali dell’innovazione e sottolinea l’urgenza di rafforzare la presenza di investitori capaci di fornire non solo risorse finanziarie, ma anche competenze, visione e accompagnamento strategico.

Formazione e reti: la leva che sta cambiando l’ecosistema

Il ritardo italiano rispetto ai principali Paesi europei è stato attribuito quasi esclusivamente alla scarsità di capitali. Ma gli indicatori più recenti mostrano che il divario non è solo quantitativo: è soprattutto culturale. L’Italia è rimasta indietro nella diffusione di competenze finanziarie e manageriali nelle fasi iniziali e nella presenza di comunità di investitori realmente strutturate, elementi oggi considerati decisivi per sostenere la crescita delle imprese innovative.

Negli ultimi anni, però, il contesto è cambiato rapidamente. Manager, imprenditori seriali e professionisti del digitale hanno introdotto un approccio più tecnico e consapevole all’early-stage investing, sostenuto da una crescente domanda di formazione avanzata e percorsi dedicati alla valutazione delle startup.

Un esempio è il Business Angel Summit, l’iniziativa nata da Startup Geeks, per offrire strumenti concreti e occasioni di dialogo tra investitori esperti e nuovi operatori del settore, contribuendo a diffondere una cultura dell’investimento più solida e collaborativa, condizione essenziale per colmare il divario con gli ecosistemi europei più maturi.

“La formazione e la costruzione di reti solide sono oggi la leva decisiva per accrescere l’impatto del capitale informale in Italia. Stiamo assistendo alla nascita di una generazione più consapevole, che investe tempo oltre al capitale e che riconosce il valore del lavoro condiviso. Non servono più investitori soltanto numerosi, ma investitori preparati: capaci di collaborare, scambiare competenze e strutturare un vero dialogo professionale. È questa maturità collettiva che può davvero trasformare il primo miglio dell’innovazione italiana”, dichiara Manuel Urzì, COO e Head of Growth di Startup Geeks.

Verso un modello italiano dello smart capital

Dall’incrocio di queste dinamiche emerge un nuovo modello di investitore: più tecnico, più consapevole, più radicato nel territorio e allineato agli standard europei. È il modello dello smart capital, una forma di investimento che non si limita a sostenere un progetto, ma partecipa in modo attivo alla sua costruzione.

L’Italia non punta necessariamente a diventare il mercato più grande, ma sta lavorando per diventare uno dei più qualificati. Se questa traiettoria sarà consolidata attraverso politiche più efficaci, reti professionali integrate e percorsi di formazione avanzata, il Paese potrebbe ridurre rapidamente il divario con gli ecosistemi più maturi e, su alcuni fronti, come la qualità dell’accompagnamento, la diversità degli investitori e l’impatto territoriale, diventare un riferimento.

Inclusività e impatto: verso un investitore che rappresenta il Paese

La trasformazione non riguarda solo le competenze, ma anche la composizione della comunità degli investitori informali. Parallelamente alla crescita professionale, l’Italia sta registrando un aumento della presenza femminile: oggi le donne rappresentano il 14% dei business angel attivi, una quota in crescita rispetto agli anni precedenti e indicativa di una maggiore apertura del settore. Allo stesso tempo si rafforza l’attenzione verso progetti con impatto sociale e territoriale, con sempre più investitori che orientano le proprie scelte non soltanto in base alle metriche finanziarie, ma al valore generato per i territori e per le comunità.

Questa diversità si riflette direttamente sulla qualità degli investimenti. Le startup sostenute da gruppi di investitori eterogenei mostrano una maggiore resilienza, una migliore capacità di analisi e una più alta probabilità di superare le prime fasi critiche. La diversità, dunque, non è un elemento marginale: è un fattore competitivo che rafforza l’intero ecosistema e amplia la capacità del Paese di attrarre talenti.