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    Perché il mondo post-COVID ha bisogno del cloud

    By Redazione BitMAT1 Aprile 20216 Mins Read
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    Lori MacVittie (in foto), Principal Technical Evangelist, Office of the CTO di F5, spiega perché la quarta ondata del cloud computing è imminente

    Lori MacVittie, F5

    La prima ondata del cloud ha visto le organizzazioni muoversi disordinatamente verso la nuvola, attirate dalle promesse di riduzione dei costi e del raggiungimento di una maggiore agilità aziendale. A questa fase idilliaca è seguito l’emergere del multi-cloud e, successivamente, un’ulteriore fase che ha visto un significativo ritorno dei carichi di lavoro dal cloud all’on-premises, spinto dalle preoccupazioni legate ai costi effettivi e alla sicurezza.

    Quello che sembra stia accadendo in questo momento è un nuovo, brusco passaggio verso una quarta ondata di adozione della nuvola.

    La trasformazione digitale e il cloud sono stati inestricabilmente legati per molti anni; temi come la velocità e la scalabilità dell’economia digitale hanno, infatti, portato le aziende a considerare la nuvola come la risposta migliore al fine di ottimizzare la presenza digitale di un’organizzazione.

    Ritengo però che, al di là del modello SaaS, che comporta un certo sgravio della responsabilità operativa per le funzioni di business in modo da ottenere velocità e scalabilità, la grande corsa al cloud non si sia mai concretamente materializzata. Certo, l’adozione è cresciuta, ma la maggior parte dei carichi di lavoro è rimasta on-premises anche se le imprese hanno abbracciato i benefici del cloud pubblico.

    I riflessi della pandemia sulla reale adozione del cloud

    È in questo panorama che entra in gioco il COVID-19. La risposta alla pandemia ha cambiato molto gli atteggiamenti delle aziende, rispetto, ad esempio, al lavoro da remoto e alle possibilità offerte dalla versione public della nuvola.

    Quasi tutti gli analisti ora concordano sul fatto che il mercato della migrazione in questa direzione oggi proceda a pieno ritmo.

    Un recente sondaggio commissionato da Codefresh, azienda specializzata nell’automazione DevOps, ha scoperto che COVID-19 sta spingendo a riconsiderare le strategie delle infrastrutture on-premises. Il sondaggio ha rilevato che il 58% degli intervistati sta spostando alcune infrastrutture nel cloud proprio in risposta alla pandemia. Di questi, il 17% sta pianificando di spostare interamente il proprio stack software nel cloud.

    Un secondo studio, realizzato da LogicMonitor, che ha coinvolto 500 decisori IT a livello globale, ha esaminato il futuro dei carichi di lavoro in cloud e l’impatto a lungo termine del COVID-19 sulle organizzazioni IT in Nord America, Inghilterra, Australia e Nuova Zelanda. Anche se il quadro completo è ancora in evoluzione, l’indagine suggerisce che la pandemia possa rappresentare un potente catalizzatore per una rapida migrazione alla nuvola.

    Lo studio Cloud 2025 di LogicMonitor, condotto tra maggio e giugno 2020, lo conferma, mostrando come l’87% dei decision maker IT globali concordi sul fatto che l’emergenza che stiamo affrontando indurrà le organizzazioni ad accelerare la loro migrazione verso il cloud.

    Un altro sondaggio, condotto da 2nd Watch, su più di 100 direttori IT o manager di livello più alto focalizzati sul cloud che lavorano per aziende con almeno 500 milioni di dollari di fatturato annuo e un budget IT di almeno 50 milioni di dollari all’anno, mostra che il 59% di essi prevede di incrementare i propri budget per il cloud nei prossimi 12 mesi, e più di un terzo (34%) sta accelerando la migrazione al cloud.

    Perché il SaaS va separato da altri tipi di cloud

    Mi fermo qui, perché non vorrei riportare solo una lunga lista di ricerche di mercato che, una dopo l’altra, giungono tutte alla medesima conclusione: “la migrazione al cloud sta accelerando”. Pochi fanno la distinzione tra cloud e SaaS, e la maggior parte non fa distinzione nemmeno tra migrazione al cloud e migrazione dei carichi di lavoro al cloud.

    Il termine cloud, infatti, è stato e continua a essere utilizzato come “ombrello” sotto il quale vengono raccolti diversi modelli, e uno di questi è il SaaS. Uno dei motivi per cui nella nostra ricerca annuale in F5 separiamo specificamente il SaaS da altri tipi di cloud (come IaaS e PaaS) è perché il SaaS tende a distorcere la visione complessiva del mercato. Non ci sono dubbi sul fatto che la migrazione al SaaS si sia velocizzata dall’inizio della pandemia, ma tale accelerazione porta con sé il sospetto di voler semplicemente ridurre le istanze del software pacchettizzato adottando un equivalente SaaS, così come il desiderio di spostarsi verso un IT gestito via SaaS.

    Anche in F5 abbiamo notato uno spostamento nelle preferenze dei clienti verso un modello SaaS per il software pacchettizzato che tradizionalmente era distribuito on-premises. Assistiamo anche a una migrazione delle applicazioni personalizzate per quelle funzioni aziendali che ora hanno equivalenti SaaS. Il driver dietro tutte queste migrazioni è duplice: ridurre i costi operativi IT e liberare risorse per concentrarsi sulla produzione di valore.

    È importante distinguere tra migrazione e adozione

    Detto questo, ci chiediamo: la migrazione al cloud (escludendo il SaaS) sta veramente accelerando? Non ne sono del tutto convinta. Penso che l’adozione del cloud stia accelerando, ma ritengo anche che non si tratti necessariamente di una migrazione “di massa” (legata ad esempio alla migrazione dei carichi di lavoro). Anche le ricerche di mercato che fanno distinzione tra infrastruttura e SaaS confermano che la maggior parte delle organizzazioni sta spostando solo alcune infrastrutture.

    Il punto focale è che è importante distinguere tra migrazione e adozione.
    La migrazione implica lo spostamento di una risorsa esistente da un luogo a un altro. Una volta chiarita questa distinzione, dati gli investimenti e il peso dei dati nelle applicazioni tradizionali esistenti, è altamente improbabile che la maggior parte delle organizzazioni si stia spostando totalmente verso il cloud pubblico.

    Piuttosto, ciò che queste indagini sembrano confermare è l’effetto di accelerazione sul cloud delle iniziative di trasformazione digitale, dato che il cloud spesso rappresenta il luogo migliore dove collocare le applicazioni e le API necessarie per modernizzarle ed essere pienamente partecipi di una economia digitale che presto sarà dominante.

    Ricordate: la modernizzazione delle applicazioni non è sinonimo di “riscrivere un monolite come microservizi”; significa piuttosto modernizzare l’accesso ad un’applicazione estendendo, aumentando e integrando un’applicazione tradizionale esistente con componenti moderne, spesso realizzate in architetture a microservizi. Ma i sistemi principali, quelli che eseguono le funzioni aziendali critiche (e spesso uniche), molto probabilmente rimarranno on-premises ancora per lungo tempo.

    Il cloud, quindi, riceverà un’ulteriore spinta nel mondo post-COVID? Credo proprio di sì. Le imprese stanno migrando in massa verso il cloud? No, non ne sono convinta, almeno non ancora. In sintesi, quello che vedo evidente è l’affermarsi di una imminente quarta ondata di “adozione” del cloud, guidata principalmente da un bisogno urgente di portare il business sempre più verso il regno digitale.

    cloud F5 Lori MacVittie
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