Il 73,2 per cento delle imprese ha fatto principalmente ricorso alle risorse proprie dei soci fondatori.

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Un  nuovo studio realizzato dal Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) e dall’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) ha analizzato il tema dell’accesso alla finanza delle startup innovative da molteplici punti di vista: composizione delle compagini sociali alla fondazione e al momento della rilevazione, in modo da descriverne le variazioni nel corso del tempo; fonti di finanziamento, anche esse descritte secondo una prospettiva dinamica; livello di soddisfazione rispetto alle esigenze di approvvigionamento finanziario delle startup.

Per quanto concerne la composizione delle compagini sociali delle startup rispondenti, rileva che, anche alla luce della loro recente costituzione, tre quarti di esse non hanno ancora registrato flussi in entrata o in uscita, e che quindi i soci al momento della rilevazione sono gli stessi fondatori dell’impresa: nel 43 per cento dei casi si tratta di due soci, nel 35,8 per cento di 3 o 4. Il turnover dei soci si intensifica, come intuibile, man mano che l’impresa diventa più matura.

Con riguardo alle fonti di finanziamento delle startup, risulta che al momento della fondazione il 73,2 per cento delle imprese ha fatto principalmente ricorso alle risorse proprie dei soci fondatori e che tale fonte è utilizzata da circa la metà delle startup anche al momento della rilevazione, benché in misura decrescente. Solo il 10 per cento delle startup rispondenti non vi fa affatto ricorso. Le donazioni di family and friends sembrano avere un ruolo marginale tanto alla costituzione quanto dopo di essa, intuibilmente perché tali attori tendono a proporsi più come soci che come meri finanziatori. Una quota minoritaria delle imprese è stata avviata mediante finanziamenti pubblici (nel 3 per cento dei casi di origine nazionale, nel 7,7 per cento di fonte regionale o locale), soprattutto nelle regioni meridionali, ma il ricorso alle risorse pubbliche diventa più significativo per le imprese più mature, soprattutto se impegnate in attività di R&S. Solo l’8,2 per cento delle startup innovative ha ricevuto in fase di costituzione finanziamenti in equity da società di venture capital, business angel o altre imprese, percentuale che sale leggermente al momento della rilevazione (11,2 per cento). È interessante notare come un gruppo di startup pari al 7,2 per cento del totale operi con risorse provenienti in maggioranza da investitori esterni: si tratta in gran parte di imprese con fatturato alto e già presenti da qualche anno sul mercato, a conferma della preferenza dei fondi di venture capital per questa tipologia di startup. Infine, la quasi totalità delle imprese non ha richiesto credito bancario all’avvio, ma l’accesso a tale strumento di finanziamento aumenta visibilmente con la maturazione dell’impresa in termini anagrafici, di forza lavoro impiegata e, ancora di più, di fatturato (49,7 per cento delle startup con produzione superiore a 500mila euro ha ricevuto prestiti bancari, contro il 21 per cento di quelle che si attestano sotto i 100mila euro).

Buona parte degli startupper si dichiara pienamente soddisfatto delle fonti di finanziamento a propria disposizione (34,1 per cento), percentuale più elevata nelle regioni del Nord (38,4 per cento) e tra le imprese con fatturato più cospicuo (56 per cento). Per contro, il 21,7 per cento degli imprenditori ritiene che la disponibilità finanziaria della propria startup sia del tutto insufficiente a coprire il fabbisogno.

Il questionario rileva altresì preferenze e approccio degli startupper alle fonti di finanziamento, con l’obiettivo di mettere alla prova la tesi, ricorrente nel dibattito mediatico e nella letteratura scientifica, della dicotomia tra finanziamento a debito e in equity. La survey sembra in realtà smentire la presunta contrapposizione nelle preferenze verso l’una e l’altra tipologia: ben il 65,7 per cento delle imprese rispondenti, infatti, dichiara che il finanziamento ottimale di cui necessitano è un mix tra equity e debito; solo un quarto vorrebbe finanziarsi esclusivamente tramite equity e meno del 10 per cento solo a debito. Tra quest’ultime prevalgono le startup con valori della produzione alti. Le tipologie di investitori preferite sono i fondi di venture capital (42,9 per cento) e le aziende (42,8 per cento), mentre solo un sesto delle startup rispondenti raccoglierebbe finanziamenti tramite l’equity crowdfunding, per lo più imprese con valori della produzione contenuti e costituitesi dopo l’entrata in vigore del regolamento Consob in materia (2013).

È interessante notare come, paradossalmente, a fronte di un interesse generale dichiarato verso il finanziamento in equity, la maggior parte delle startup (68,4 per cento), dopo la fondazione, non abbia cercato nuovi finanziamenti da fondi di venture capital, business angel o tramite l’equity crowdfunding, quasi a suggerire che questa soluzione sia più auspicata che effettivamente perseguita. Rileva altresì come la ricerca di tale tipologia di finanziamento sia decisamente più diffusa (53,8 per cento delle imprese) tra le startup che hanno beneficiato dei servizi degli incubatori certificati di startup innovative, definiti ai sensi del decreto-legge 179/2012 come quelle società che presentano uno storico consolidato nei servizi di sviluppo aziendale. Quasi la metà delle imprese che non cercano attivamente capitale di rischio (43,9 per cento) ritiene di avere risorse finanziarie sufficienti, mentre il 14,9 per cento non considera il proprio business adatto a ricevere tale tipologia di finanziamento. Quasi un sesto degli startupper, inoltre, dichiara di non avere interesse o fiducia nel mercato del venture capital e un altro sesto, soprattutto in imprese più mature, è restio ad aprire la compagine sociale a nuovi soci, temendo una riduzione dell’autonomia decisionale. Infine, una quota non trascurabile di startup (12 per cento) ha rifiutato delle offerte di investimento: nel 24,8 per cento dei casi perché la valutazione delle quote era ritenuta troppo bassa, nel 21,9 per cento a causa clausole contrattuali ritenute penalizzanti per i soci già presenti, nei restanti casi perché la quota richiesta di partecipazione nell’azienda (17,8 per cento) o il ruolo gestionale richiesto (12,8 per cento) sono stati ritenuti eccessivi.

Per quanto riguarda il rapporto delle startup con gli altri attori dell’ecosistema dell’innovazione, in particolare incubatori certificati, università e imprese mature, risulta che la gran parte delle imprese (72,6 per cento) non è stata mai localizzata presso un incubatore certificato, che il 21,6 per cento delle imprese lo è al momento della rilevazione e che la restante parte lo è stata in passato. L’incidenza di quella platea di incubatori che la normativa nazionale identifica come eccellenti, e che storicamente si attesta sulle 30 unità, riguarda dunque una startup innovativa italiana su quattro. Come intuibile, la percentuale di imprese incubate diminuisce al crescere della classe di produzione. Circa la metà delle imprese (45,6 per cento), soprattutto quelle caratterizzate da innovazioni di prodotto e spesa in R&S oltre il 40% del fatturato, presenta rapporti di collaborazione con altri attori economici diversi dagli incubatori, per lo più in ambito tecnologico con università e centri di ricerca (47,8 per cento, contro un 26,9 per cento di accordi in ambito commerciale). Rileva, in aggiunta, come, contrariamente a quanto si potrebbe desumere dai valori della produzione – nulli o ridotti per un gran numero di startup –, esse dichiarino di aver iniziato a vendere i propri prodotti o servizi in tempi rapidi, spesso sin dalla costituzione (38 per cento) e comunque entro uno (80 per cento) o due anni (94,5 per cento) dalla stessa.