La Triennale di Milano ha ospitato una serie di convegni sul rapporto tra evoluzione tecnologica e società: come funziona la reciproca influenza tra le due?

Insieme ma soli. Perchè ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri. È il titolo dell’ultimo saggio di Sherry Turkle, psicologa e docente del Massachussets Institute of Technology, e anche lo spunto di uno degli incontri ospitati dalla Triennale di Milano il 23 e il 24 gennaio. Il contenitore è stato l’evento organizzato da Gianni Canova e Matteo Bittanti, intitolato Per una critica della ragione tecnologica. Il mondo che verrà, il mondo come è già. Il tema, come s’intuisce, era il rapporto che lega la tecnologia e i rapporti umani: con gli oggetti tecnologici e tra gli uomini stessi.

Speravamo che questo dialogo fosse più coinvolgente, come lo era il titolo dell’incontro-scontro tra le due voci protagoniste. Alberto Abruzzese e Andrea Miconi, rispettivamente sociologo e ricercatore ed entrambi docenti alla IULM milanese, erano infatti chiamati a esprimere le loro riflessioni sul saggio Insieme ma soli. Ma cominciamo dalle note positive.

Tra gli aspetti più interessanti del ping-pong c’è stato il parziale disaccordo tra i due, un buon punto di partenza per un conflitto costruttivo. Abruzzese si è detto affascinato dal libro della Turkle, forse più dal suo stile, dalla chiarezza nell’esposizione e dalla capacità di rendere facilmente accessibili concetti complessi. Miconi ha invece criticato la psicologa tacciandola di furberia, accusandola di cavalcare i trend che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. Quando andava di moda esaltare le potenzialità della tecnologia, tra gli anni ’90 e i primi 2000, i suoi studi – confluiti nel saggio Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet – vertevano sui pregi che la comunicazione mediata dal computer avrebbe offerto all’uomo. Quando invece l’overdose di tecnologia o social network ha cominciato a rivelare i suoi effetti collaterali, il suo interesse si è spostato sui difetti che il digitale porta con sé, la dipendenza prima di tutto.

Non è difficile accogliere la tesi di Miconi, che ha poi aggiunto: Sherry Turkle non avrebbe condotto uno studio qualitativo e quantitativo insieme, non avrebbe considerato con la dovuta attenzione il rapporto tra i dispositivi tecnologici e la società nel suo complesso. Aveva commesso una disattenzione simile anche in Life on the Screen, come aveva notato Simone Tosoni nel suo saggio Identità virtuali: scavando in profondità, i rapporti umani mediati da computer riproducono gli stessi meccanismi di inclusione ed esclusione di quelli faccia a faccia. Per semplificare: se sei una voce fuori dal coro sarai trattato alla stessa maniera in un gruppo fisico e in uno virtuale. A meno che tu non sia inserito in un gruppo di tuoi simili, ma in quel caso non sei più fuori dal coro.

La Turkle ha preferito argomentare solo del legame tra il singolo fruitore e suoi device, esaltando il potenziale di libertà e ubiquità della nuova identità digitale. Salvo poi smorzare tale entusiasmo, forse prematuro. Avrebbero però giovato alla discussione degli esempi, per riportare su un piano concreto le speculazioni teoriche e critiche, ma soprattutto la possibilità di fare qualche domanda ai relatori prima di passare al ping-pong successivo.

Ecco dunque la nota negativa del pomeriggio: ferma restando la qualità dei due interventi, avremmo apprezzato più profondità. Partire dalla critica al libro e instaurare un dialogo più serrato, un vero ping-pong, coinvolgere l’uditorio, per quanto ristretto. Non è successo: siamo rimasti di fronte a un punto di partenza, non di più. Sacrificare l’approfondimento sull’altare della tabella di marcia era forse necessario, ma non si poteva non prevedere un dibattito impoverito e un  po’ autoreferenziale.