Oltre il 40% delle imrpese italiane ha effettuato delle acquisizioni, nell’81% dei casi all’estero, ma l’integrazione fallisce per il 70%

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Secondo una ricerca commissionata dalla banca HSBC all’Università di Padova, oltre il 40% delle medie e grandi imprese italiane ha effettuato almeno un’acquisizione, nell’81% dei casi all’estero. I dati dell’Osservatorio Assochange, che monitora le trasformazioni organizzative, segnalano tuttavia anche le difficoltà che si incontrano nel change management: il 70% dei processi di integrazione falliscono. I casi di Ferrero (che ha acquistato il business dolciario statunitense di Nestlé a inizio anno) e Lavazza (che ha annunciato per fine 2018 il closing per l’acquisto di Mars Drinks) sono solo i due esempi più recenti.

“Questi numeri evidenziano due indirizzi interessanti per il mondo economico: il primo è la tendenza alla costruzione di grandi corporation in grado di creare realtà sempre più massicce e competitive. Il secondo è più una speranza che un robusto trend, ma ha un risvolto “sentimentale”: anche le multinazionali nate in Italia possono e vogliono essere della partita. Ma per preservare l’investimento fatto non basta mettere insieme conti economici, prodotti, impianti: occorre integrare le culture e formare una nuova organizzazione.” È quanto sottolinea Daniele Cantore, Head of Cultural Change Management di Methodos, società di consulenza che segue le imprese proprio nei processi di change management.

Un’operazione di acquisizione o fusione, infatti, non si limita a riguardare solo gli aspetti economici, societari e industriali. Si tratta anche un incontro di cultura organizzativa, stile di leadership, mentalità e comportamenti delle persone. E non sempre il processo è indolore.

“Sono proprio le persone il fattore chiave che determina,nella maggior parte dei casi, il successo o il fallimento dell’integrazione – spiega Daniele Cantore. L’aspetto psicologico è fondamentale ed è bene cominciare a lavorare il prima possibile sulla cosiddetta “area soft”. Cruciale partire con il piede giusto, con un ascolto strutturato, una chiara identificazione delle culture organizzative e intervenendo da subito su alcune dinamiche, come quella “vincitori contro vinti”, o il diffondersi di sfiducia e sospetto. Tutti elementi che portano all’immobilismo e fanno deragliare il progetto.”

Pur non essendoci una ricetta universale per il successo, le probabilità di far bene aumentano se si segue un metodo strutturato di change management che tenga conto di almeno cinque dimensioni fondamentali.

  1. Vision. Cioè conoscere se stessi, la propria organizzazione, dove si vuole andare e qual è il senso del cambiamento. “Non è una questione meramente filosofica – spiega Cantore. Le persone aderiscono (o meno) al cambiamento se è chiaro loro il senso di quello che stanno facendo. Al contrario, l’orientamento a eseguire semplicemente l’attività e il compito è un fattore molto limitante.”
  2. Comunicazione. Quella interna in molte aziende, non tanto come funzione quanto come processo, purtroppo, non sempre funziona come dovrebbe. “Comunicare costantemente, anche in modo parziale, è fondamentale per tenere le persone a bordo rispetto a quello che accade. Al contrario, non comunicare, aspettare che tutto sia pronto per farlo, significa lasciare che qualcun altro comunichi al posto tuo.” E far sì che il susseguirsi di voci alimenti un clima negativo.
  3. Leadership. “È il modo d’essere e di presentarsi della catena manageriale. Una listening leadership compatta e che incarni la volontà di cambiare è il più potente propellente per un cambiamento. Una catena della leadership disgregata e poco impegnata ne è invece il maggiore inibitore.”
  4. Engagement. Significa definire il ruolo delle persone nel processo di cambiamento. “Tutti in azienda devono sentire di poter contribuire alle nuove fasi di una storia organizzativa. E quando le persone vogliono far accadere il cambiamento, sanno sprigionare un’energia straordinaria.”
  5. Misurazione. Perché è utile avere una dashboard, i processi vanno monitorati. “Bisogna adottare un cruscotto coerente con la vision del cambiamento. Inoltre, monitorare i risultati non è di per sé sufficiente; è fondamentale monitorare anche i processi chiave ad essi associati. Altrimenti si rischia di non conoscere il reale progresso del cambiamento.”

Esiste, infine, una “via italiana” all’integrazione?

“I luoghi comuni spesso forniscono spunti di riflessione interessanti – conclude Daniele Cantore. Ogni programma di change management viene sempre adattato al contesto di riferimento e senz’altro si può dire che noi italiani siamo più bravi a essere flessibili e adattivi. D’altra parte, a volte ci manca il rigore necessario per arrivare in fondo a questi progetti.”

L’importante rimane sempre partire da basi solide: conoscere se stessi, l’altra realtà, stabilire perché ci si integra e che cosa si vuole diventare e, fattore determinate, rendere le persone di queste organizzazioni le protagoniste di queste sfide.