Dall’EMC Privacy Index emerge un utente “incoerente” che vuole sì far valere i propri diritti di riservatezza, ma allo stesso tempo non fa nulla per garantire maggiore sicurezza, pretende troppo e condivide eccessive informazioni.

[section_title title=Esiste ancora la privacy?]

In quest’ultimo periodo si parla sempre più spesso di innovazione, di digitalizzazione e di competitività. Questo perché, così come sta succedendo nella vita di tutti i giorni, anche il modo di fare business è profondamente influenzato dalle nuove tecnologie che stanno letteralmente cambiando i paradigmi, fornendo una notevole spinta verso l’efficienza. Basti soltanto pensare all’avvento dei social network, del mobile, delle applicazioni e del BYOD, ma soprattutto al potere delle informazioni. Tutti elementi che se ben sfruttati possono, senza ombra di dubbio, costituire le basi del business del futuro.
Attenzione particolare deve essere posta alle informazioni, ormai elementi imprescindibili su cui le aziende puntano per fare la differenza. Big data e Analytics quindi, i nuovi driver per realizzare strategie “su misura”, strategie a dimensione d’uomo. Certamente le implicazioni in termini di servizio offerto ai consumatori sono molto interessanti, ma spesso ci si dimentica dell’altra faccia della medaglia: la privacy.

Un diritto che sempre più spesso viene violato. Ne sono esempio i continui scandali che salgono alla ribalta delle cronache: dal recente allarme lanciato da Antonello Soro contro i giganti del web, alle dichiarazioni di Vodafone secondo cui i governi sorvegliano gli utenti, ma anche l’ormai famoso scandalo Prism risalente allo scorso anno. Tutti casi in cui gli utenti hanno visto compromessa la loro riservatezza.

Ma qual è ormai il rapporto tra privacy e utenti nel 2014? A fornire la risposta è l’EMC Privacy Index, ricerca condotta in 15 Paesi su 15 mila consumatori secondo i quali la privacy risulta essere una tematica molto sentita, anche se spesso alcuni loro comportamenti fanno presumere proprio il contrario. Sono 3, infatti, i paradossi emersi dalla ricerca.

Il paradosso del “voglio tutto

Indipendentemente dalla tipologia di utente online e dal tipo di vantaggio che potrebbero ottenere dalla tecnologia digitale, le persone sono molto poco disposte a “intaccare” la propria privacy: il 91% degli intervistati apprezza infatti “l’accesso più facile alle informazioni e alla conoscenza”, ma solo il 27% è disposto a sacrificare qualcosa della propria privacy in cambio dei vantaggi offerti da Internet. I consumatori vogliono quindi “tutto” senza condividere i propri dati. Cosa impossibile.

Il paradosso del “non fare nulla

Nonostante oltre la metà degli intervistati abbia affermato di aver subìto una violazione dei propri dati, la sicurezza ancora troppo spesso non viene presa seriamente in considerazione: il 62% non modifica le proprie password con regolarità, 4 intervistati su 10 non stabiliscono la configurazione della privacy sui social network e il 39% non protegge i propri dispositivi mobile con password. È sorprendente però che soltanto l’11% imputa le violazioni subite alla propria negligenza.

Il paradosso del “social sharing

Altro fattore da considerare è l’uso massiccio dei social media. Questi strumenti vengono utilizzati sempre di più sebbene gli intervistati siano consapevoli che la privacy venga sensibilmente ridotta e nonostante la bassa fiducia attribuita alle capacità e al senso etico delle istituzioni per la protezione della privacy dei dati personali.

Emerge quindi un utente “incoerente” che vuole da una parte far valere i propri diritti di riservatezza, ma allo stesso tempo non fa nulla per garantire maggiore sicurezza, ma anzi “condivide” numerose informazioni, ad esempio, sui social network.

Italia, Paese all’avanguardia

Per avere una privacy maggiore è sufficiente non ‘giocare’– sottolinea l’avvocato Dante De Benedetti, socio fondatore dello studio MDBA – Non giocare significa non accettare tutti quei servizi che necessariamente presuppongono di fornire chi siamo ma è opportuno anche avvalersi della possibilità di revocare il consenso al trattamento dei dati personali dopo la conclusione di un rapporto con una determinata società o ente. Rimanere nell’anonimato o cercare di farlo, quindi, è una delle possibili soluzioni perché in fin dei conti la privacy è il diritto ad essere dimenticati. Ma ormai chi è disposto a farlo?” Soprattutto in una società come la nostra, basata sempre di più sull’apparire che sull’essere.

La mancanza di privacy è diventata ormai un’abitudine condivisa: tutti sanno tutto di tutti. Spesso però ci si dimentica che le orecchie del cyber crime sono sempre allerta. Informazioni che se finiscono nelle mani sbagliate possono provocare ingenti danni.

Ed è per questo che il Garante della Privacy è sempre attivo.

In Italia la privacy è un diritto fortemente tutelato, molto di più che in altri Paesi. Se in diversi ambiti lo Stato italiano riscontra alcune difficolta rispetto ad altre nazioni europee o agli USA, in questo campo siamo all’avanguardia. – spiega De Benedetti – Il problema sta pertanto quando forniamo i nostri dati a società estere, che seguendo altre giurisdizioni, sono più libere nell’utilizzarli, anche perchè consapevoli di non incorrere a sanzioni, data la mancanza di un organismo sovrannazionale. E lo stesso vale anche per il cloud”.

Per leggere quanto emerso dalla ricerca in riferimento all’Italia consultare la pagina successiva